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La crisi dei partiti inizia con la “seconda Repubblica”?

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Dai sogni collettivi al dominio dei leader (capi): l’eclissi dei partiti nella Seconda Repubblica.

Partiamo da una semplice domanda, alla quale, come vedremo non è facile rispondere: i partiti politici sono in crisi?

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Per quanto se ne discuta da anni, parlare di crisi dei partiti non è completamente corretto. Sicuramente i partiti, soprattutto dopo la crisi di tangentopoli e quindi con l’inizio della cosiddetta “seconda Repubblica”, hanno dovuto cedere un po’ di spazio alle lobbies, ai mass media, ad alcuni movimenti, a qualche sindacato e forse, in parte, alla magistratura, in quello che è il rapporto tra società e stato.

Sicuramente sono ancora i partiti che dominano la scena perché sono ancora loro che organizzano tutte le competizioni elettorali e soprattutto scelgono i candidati e quindi gli eventuali eletti. Sono sempre i partiti che decidono chi deve andare a far parte dei governi e non solo, si occupano anche di tutte le eventuali nomine di sottogoverno sulle quali hanno competenza.

Ma è completamente così?

Negli ultimi trent’anni, i partiti sono cambiati profondamente. Ciò non ci permette di parlare di una fine dei partiti, semplicemente di un grande mutamento ovvero un maggiore concentrarsi verso l’ambito elettorale piuttosto che nei confronti di quello ideologico, abbandonando quindi alcuni aspetti fondamentali che contraddistinguono il partito stesso. Sono diventati contenitori di uomini e di consensi piuttosto che di idee e visioni future del sistema Paese.

Negli anni tra il 1992 e il 1994 iniziò la cosiddetta “seconda Repubblica”. Questo periodo fu caratterizzato da una repentina modifica del sistema partitico nazionale, che era stato smantellato dopo tutti i procedimenti giudiziari di “Tangentopoli” provocando l“azzeramento della cultura politica”.

Quasi tutti i partiti che avevano costruito la democrazia repubblicana e creato la costituzione entrata in vigore nel 1948 erano scomparsi. Nel mondo della politica si affacciarono nuovi poteri, partiti e movimenti che immediatamente presero il posto di quelli vecchi. Si sostituirono tutti i riferimenti ideologici, culturali, valoriali ad una centralizzazione verticistica e personalistica dei partiti. Cominciarono a nascere i partiti dei leader avviando una lenta ma progressiva decadenza politica ed economica del paese.

Cominciò a scomparire la classe dirigente, i parlamentari vennero eletti con liste bloccate o in parte in collegi uninominali con il sistema maggioritario, quindi l’elettore iniziò a perdere la centralità e l’eletto non ebbe più bisogno della rappresentatività territoriale, perdendo anche l’autorevolezza verso i cittadini, ma soprattutto verso il loro leader, che man mano è divenuto un vero e proprio capo. Oggi non esistono più i segretari di partito come li conoscevamo prima, questi ultimi diventano i capi assoluti di un contenitore di uomini che qualcuno ancora chiama partito.

Non si produce più classe dirigente anche perché l’elettore non è più al centro della politica, ma solo il leader (capo) decide tutto, anche chi deve essere eletto e chi no! 

Peggio di così non si sarebbe potuto fare, saltano ideologia, valori, identità e tutto quello che il sistema partito garantiva. Nascono tanti partiti con un’unica comune caratteristica, ovvero la personalizzazione di ogni partito con il proprio leader. 

Nella “prima Repubblica” tutti i partiti politici indicavano un percorso, avevano l’idea della società futura, un idea di paese, dalla politica interna alla politica estera.

 E’ vero che tante idee erano solo sogni, ma cosa sarebbe una vita senza sogni? I partiti politici erano stati in grado di far sognare gli italiani, con tutte le criticità che si portavano appresso.

Hanno perso quello che era il rapporto con la società entrando in una grave crisi di delegittimazione. 

Fino alla cosiddetta “prima Repubblica”, esisteva una grande partecipazione, una militanza di milioni di iscritti ai partiti tradizionali, adesso vediamo la stragrande maggioranza di italiani che non va più a votare e percentuali irrisorie di cittadini iscritti ai partiti.

Quotidianamente si inneggia al popolo, che, però, si allontana dai partiti e quindi dalla politica.

Esiste solo il leader del partito, al quale è stata demandata tutta l’attività dello stesso, la vita e la morte.

L’inconsistenza del partito produce degli effetti negativi, dalla volatilità dell’elettorato, alla destrutturazione organizzativa (pochi  congressi, riunioni di sezioni, di segreterie e di altri organi collegiali). Cambia totalmente la modalità di scelta delle classe dirigente provocandone un abbassamento del livello qualitativo dei parlamentari e dei politici in generale. D’altronde il capo ne è felice e consapevole, si esalta perché è il più furbo e si circonda di “yes man” che non devono dare conto ai propri territori, perdendo la rappresentatività territoriale, tanto non ne hanno più bisogno, basta essere nelle grazie del leader per essere candidato in una posizione favorevole nella lista bloccata.

Anche la parola partito è stata messa in pensione, come se ci si vergognasse a nominarla. Ci ricordiamo i vecchi partiti tradizionali (partito socialista, partito liberale, partito repubblicano ecc…), al contrario i nuovi non la utilizzano quasi più, forse è rimasto solo il partito democratico a mantenere questo termine. 

Concludendo, i partiti politici sono il cuore della democrazia, senza di essi, non possiamo dire di essere in una democrazia matura e forse neanche in una democrazia vera. Il sistema partitico è previsto dall’art. 49 della Costituzione “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Ma esiste ancora un associazione sociale che concorre alla politica nazionale?

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