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“Solo il fato li vinse!” Il ricordo del Grande Torino

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Torino – Il tempo, dicono, aggiusta ogni ferita. Ma ce ne sono alcune che non si rimarginano mai, perché non appartengono solo al dolore, ma anche alla memoria. Così, ogni 4 maggio, Torino si ferma. Si tinge di granata. E sale in silenzio, passo dopo passo, fino a Superga. È lì, sulla collina, che il mito si è fatto eterno. Alle 17:05 di un mercoledì del 1949, il cielo si prese tutto. Non solo una squadra, non solo dei campioni. Si prese un’idea, un sogno collettivo, una promessa di bellezza e di vittorie che sembrava destinata a durare per sempre.

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Lo chiamavano Grande Torino. E non era un’esagerazione. Dal 1943 al 1949, con una guerra nel mezzo, avevano giocato 88 partite senza conoscere la sconfitta. In campo, erano undici, ma sembravano di più. Troppo forti per essere battuti. Troppo uniti per essere separati. Nove su undici indossavano anche la maglia della Nazionale. Erano l’Italia che sarebbe potuta essere. A guidarli, Valentino Mazzola. Un capitano con lo sguardo fiero e la maglia sempre un po’ sporca di fatica. Bastava un suo gesto, rimboccarsi le maniche, e lo stadio Filadelfia si infiammava. Era l’inizio del “quarto d’ora granata”, quindici minuti in cui il Torino diventava incontenibile. Un ciclone. Una sinfonia in maglia granata, accompagnata dalla tromba di Oreste Bolmida, il tifoso che suonava la carica dagli spalti.

Dieci a zero all’Alessandria. Centoventicinque gol in una sola stagione, quella del 1947-48. Sembrava una squadra venuta da un altro pianeta, e in effetti lo era. Perché nessuno, in quel tempo, riusciva nemmeno ad avvicinarla.

Poi venne quel maledetto 4 Maggio. Un viaggio a Lisbona per un’amichevole benefica. Il rientro in patria. La nebbia. E l’aereo che non vide la collina. Un boato. Un istante. E il nulla. Da allora, i loro nomi sono scolpiti nella memoria. Bacigalupo, Ballarin Aldo e Ballarin Dino, Bongiorno, Castigliano, Fadini, Gabetto, Grava, Grezar, Loik, Maroso, Martelli, Mazzola, Monti, Operto, Ossola, Rigamonti, Schubert. Ma anche Agnisetta, Civalleri, Bonaiuti, Erbstein, Lievesley, Casalbore, Tosatti, Cavallero… Non erano solo giocatori, tecnici, giornalisti. Erano parte di un’unica, meravigliosa favola.

“Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede”, scrisse Indro Montanelli. “E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta…”

E forse è davvero così. Perché se oggi, settantasei anni dopo, siamo ancora qui a ricordarli, anche senza averli mai visti giocare, è perché non sono mai davvero andati via. Sono rimasti lì, tra le mura dello stadio Filadelfia, nella pietra della Basilica, nei cori dei tifosi, nei racconti dei nonni. Sono rimasti nel cuore di una città intera. Superga, oggi, non è solo un luogo. È una promessa mantenuta. È la certezza che la memoria può essere più forte del tempo. Che la bellezza può sfidare la morte. Che un pallone, calciato con passione, può diventare eterno.

Torino, oggi, si ferma. Si commuove. E ricorda. Perché nessuno di loro è morto davvero. Sono solo “in trasferta”, come ci piace pensare.

E noi li aspettiamo. Ogni anno. Ogni 4 maggio.

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