Il caso Al Masri, nel suo strascico di polemiche, ha avuto il doloroso merito di far riesumare un concetto col quale l’Italia ha avuto da sempre una relazione pericolosa: la Ragion di Stato.
Si tratta di un principio – per le potenze mondiali imperialiste è una virtù – che trae origine dalle riflessioni cinquecentesche di Francesco Guicciardini nel secondo libro del suo “Dialogo del reggimento di Firenze”: “Però quando io ho detto di ammazzare o tenere prigionieri i pisani, non ho forse parlato cristianamente, ma ho parlato secondo la ragione ed uso degli stati, né parlerà più cristianamente di me chi, rifiutata questa crudeltà, consiglierà che si faccia ogni sforzo di pigliare Pisa, che non vuole dire altro che essere causa di infiniti mali per occupare una cosa che secondo la coscienza non è vostra.”

In Italia la Ragion di Stato è sempre stata una spina nel fianco dei governi, tanto che è un principio che andrebbe maneggiato con cautela ogni qual volta la si vuole far valere di fronte all’opinione pubblica. E vale soprattutto in questi giorni, dove destra e sinistra la manifestano a proprio piacimento. Ma quanto vale urlare e rivendicare la Ragione di Stato per il caso del torturatore libico? Probabilmente può valere tutto e può valere nulla.
Tuttavia, non basta arrischiare una risposta raggrinzita, occorre piuttosto l’azzardo di una riflessione in più. Immaginiamo di tornare indietro nel tempo fino alla primavera del 1978, l’anno del caso Moro, della morte di Aldo Moro, l’anno dell’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana, ucciso perché – semicitando il titolo dell’editoriale del 10 maggio 1978 del “Corriere della Sera” -: “questa Repubblica viva”. Eppure, quanto di umanitario proposto in quei terribili 55 giorni venne pesantemente contestato e messo da parte dalla dirigenza democristiana e dal PCI, estremi oppositori della cosiddetta trattativa: lo Stato non può scendere a patti con i terroristi.
Davvero valeva la pena sacrificare Moro per la salvezza dello Stato? Davvero la Ragion di Stato può prevalere sulla Vita Umana? Realmente, utilizzando un “paragone” pirandelliano, la forma, che è la morte, può prevalere sulla sostanza, che è la vita?
Sul caso Al Masri potremmo applicare lo stesso ragionamento, senza però dimenticare che i reclusi come Moro si trovano nel deserto libico, a migliaia di chilometri dall’Italia.
La libertà e il rimpatrio di quel tagliagole, quindi, valgono la salvezza dello Stato italiano a fronte dei migranti torturati e stuprati così come si evince dall’accusa della Corte Penale Internazionale?
Siamo di fronte ad una questione così complessa che meriterebbe un’osservazione matura e autorevole che al momento sembra assente dal dibattito italiano. Mi rivolgo allora alle puntuali riflessioni di Leonardo Sciascia riportate nel suo “Affaire Moro” (edito da Adelphi), un saggio scritto a caldo durante la prigionia del politico democristiano. A proposito dell’atteggiamento di Paolo VI, che chiese in una lettera la semplice liberazione, senza condizioni, di Aldo Moro, lo scrittore siciliano scrisse:
Lettera che sembra di alto sentire cristiano: solo che vi si cela, nell’esortazione agli uomini delle Brigate a liberare Moro […] una specie di confermazione […] della Democrazia Cristiana in quella sua dichiarata “indefettibile fedeltà allo Stato”. Nella “prigione del popolo”, a Moro non sfugge quel che alla generalità degli italiani, commossi dall’inginocchiarsi del papa davanti ai brigatisti, non appare: che Paolo VI ha più “senso dello Stato” di quanto abbia dimostrato di averne il principe Poniatowski, ministro degli interni dello Stato francese, che in tempi non lontani aveva dichiarato ammissibile il principio di trattare coi terroristi per evitare il sacrificio “della vita umana innocente”. Vale a dire che la pensava esattamente come Moro: né si può dire che lo Stato francese non sia Stato: lo è con tutti i sacramenti, è il caso di dire. I sacramenti che fanno Stato uno Stato; e magari in abbondanza (pp. 96-97-98).
Lascio al lettore ulteriori elaborazioni.
(Domenico Mazza)
