Nel mondo della pasta italiana si sta consumando, in questi mesi, una partita che va ben oltre la concorrenza commerciale. È una vicenda che intreccia economia, geopolitica e identità nazionale e che rischia di colpire proprio le imprese più autenticamente legate alla nostra tradizione produttiva.

A partire dal 1° gennaio 2026, infatti, le autorità statunitensi potrebbero applicare un dazio complessivo del 107 % sulla pasta importata dall’Italia, sommando un 15 % già in vigore a un nuovo dazio antidumping preliminare del 91,74 %. Un livello che, di fatto, renderebbe impossibile la competitività dei produttori italiani nel mercato americano.
Secondo il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, alcuni marchi italiani avrebbero praticato “prezzi di dumping”, esportando a costi inferiori rispetto a quelli del mercato interno.
Un’accusa che ricorre ciclicamente e che, in questa occasione, si è tradotta in una misura tanto drastica quanto anomala: in passato, le revisioni tariffarie non avevano mai superato il 2 %.
Dietro la giustificazione tecnica, però, si intravede una dinamica industriale più complessa.
Nel mercato americano operano ormai diversi gruppi italiani con stabilimenti produttivi propri negli Stati Uniti, perfettamente integrati nel sistema economico locale. Tra questi, il caso più rilevante è quello di Barilla, che negli anni ha costruito un solido network di stabilimenti in Iowa, New York, Minnesota e North Carolina.
Barilla è oggi uno dei principali produttori di pasta sul suolo americano: un gruppo italiano che, producendo direttamente negli USA, non subisce i dazi sulle importazioni.
Questa strategia industriale, del tutto legittima, rappresenta un modello di internazionalizzazione di successo — ma crea, inevitabilmente, un effetto distorsivo.
Le aziende che continuano a produrre integralmente in Italia si trovano penalizzate due volte: da un lato, devono sostenere costi di trasporto e burocrazia doganale; dall’altro, subiscono dazi che non toccano chi ha delocalizzato la produzione.
Il risultato è un paradosso economico: più si è radicati in Italia, più si rischia di essere esclusi dai mercati globali.
Un caso emblematico è quello della filiera siciliana della pasta, che rappresenta un presidio di qualità e identità territoriale.
Nel Trapanese, il Pastificio Poiatti è da decenni uno dei nomi più solidi del settore ( e da lavoro sia direttamente che per l’indotto a centinaia di lavoratori): un’azienda nata nel dopoguerra, cresciuta con equilibrio e oggi dotata di un impianto moderno e di una filiera integrata che valorizza il grano duro dell’isola.
La sua presenza anche nel mercato americano — conforme alle registrazioni richieste dalla Food and Drug Administration (FDA) — testimonia la serietà e la capacità imprenditoriale di una realtà che esporta eccellenza, non surplus.
Ed è proprio qui che il dazio americano mostra tutta la sua ingiustizia strutturale.
Colpisce chi mantiene la produzione in patria, chi paga lavoratori italiani e investe nei territori, e finisce invece per agevolare chi produce già negli Stati Uniti, potendo così continuare a vendere senza ostacoli doganali.
Non è un caso, infatti, che tra le aziende più esposte in Italia vi siano marchi come Rummo, Garofalo, La Molisana e la stessa Poiatti, mentre Barilla, grazie alla sua produzione americana, ne resterebbe sostanzialmente al riparo.
Non si tratta di individuare colpevoli, ma di evidenziare una contraddizione industriale: l’idea di proteggere la produzione “domestica” americana sta finendo per colpire la vera produzione “domestica” italiana.
E così, mentre le multinazionali possono redistribuire i volumi tra i propri stabilimenti, le imprese medie e piccole — spesso familiari, radicate nei territori — rischiano di vedere chiudersi l’accesso a un mercato costruito con decenni di sforzi e investimenti.
Il Governo italiano e l’Unione Europea sono chiamati a una risposta politica, non solo tecnica.
Serve un’azione diplomatica forte per evitare che l’ennesima misura protezionistica finisca per cancellare dal mercato internazionale proprio il Made in Italy più autentico.
Difendere la pasta italiana, e quella siciliana in particolare, significa difendere un modo di fare impresa che mette al centro la qualità, la filiera agricola e la dignità del lavoro.
La pasta, dopotutto, non è soltanto un prodotto alimentare: è un simbolo culturale, un’identità condivisa, una delle poche parole italiane comprese e amate in tutto il mondo.
Lasciare che venga marginalizzata da logiche commerciali sbilanciate sarebbe non solo un errore economico, ma anche un impoverimento culturale.
di Vicky Amendolia (Sd Socialdemocrazia) e Letterio Grasso (Azione)
